Ottant’anni fa, il 25 aprile 1945, l’Italia usciva dall’incubo del nazifascismo. L’insurrezione, proclamata dal Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia e annunciata dal partigiano Sandro Pertini con la voce ferma di chi aveva conosciuto la prigione e la clandestinità, segnava l’inizio di una nuova storia. Fu la fine di una dittatura, la sconfitta dell’occupazione nazista, ma soprattutto l’inizio di una rinascita collettiva. Quella liberazione, troppo spesso celebrata con retorica e poco con consapevolezza, fu frutto del coraggio di chi aveva meno da perdere e tutto da conquistare: gli ultimi.
La guerra di liberazione fu anche una guerra di classe. Non perché mancassero intellettuali, politici, borghesi o militari nel movimento resistenziale — ce ne furono, e furono determinanti. Ma perché a scendere in massa sulle montagne, nei campi, nelle città occupate, furono operai, contadini, studenti, artigiani, scugnizzi. Gente comune. Gente povera.
A Napoli, durante le Quattro Giornate del settembre 1943, a insorgere contro l’occupazione tedesca furono anche i bambini di strada, gli scugnizzi, senza istruzione né scarpe, ma con il senso istintivo della giustizia. A Bologna, Torino, Milano, Genova, il cuore della Resistenza batteva nei quartieri popolari, nei capannoni delle fabbriche, nei cortili delle case di ringhiera.
Le brigate partigiane non furono solo eserciti improvvisati, ma anche espressione delle culture politiche che avrebbero animato la futura Repubblica: le Brigate Garibaldi, di ispirazione comunista; le Giustizia e Libertà, del Partito d’Azione; le Matteotti, socialiste; le Brigate del Popolo, cattoliche. Ma al di là delle etichette, esse furono luoghi di fraternità e resistenza concreta, dove contadini e operai combattevano fianco a fianco, uniti da un bisogno di giustizia che precedeva l’ideologia.
Non è un caso che il primo articolo della Costituzione — nata da quella stagione di sangue e speranza — sia dedicato al lavoro. È il riconoscimento implicito di chi quella libertà l’ha resa possibile con le mani sporche di terra, di olio, di fucili arrugginiti. Non con le parole.
Fu anche una guerra di donne. Dimenticate, spesso, nei resoconti ufficiali. Ma determinanti. Le staffette partigiane — ragazze di vent’anni che viaggiavano in bicicletta con documenti falsi nascosti tra i vestiti — misero in salvo intere reti clandestine. Le donne cucivano, curavano, informavano, combattevano. Rischiavano la vita ogni giorno, e non per gloria. Lo facevano perché era giusto.
Gli ultimi furono i primi a riconoscere il volto disumano del fascismo e dell’occupazione. Non avevano beni da difendere. Avevano fame, avevano figli, avevano paura. Ma sapevano che non c’è pane senza libertà, né pace senza giustizia. E fu per questo che lottarono. Per un Paese che ancora non esisteva. Per un domani che nessuno poteva garantire.
In quei giorni, il popolo si fece Stato. Lo Stato si fece popolo. E la Costituzione — la più bella del mondo, come disse Calamandrei — è nata da quella saldatura. Dall’idea che la Repubblica non dovesse fondarsi sul privilegio, ma sulla dignità.
Oggi, mentre celebriamo l’80° anniversario della Liberazione, ci interroghiamo sul senso attuale del 25 aprile. È ancora una data viva? È solo memoria, o è anche progetto? È una festa per tutti, o una bandiera di parte?
La risposta sta nelle domande che ci poniamo. Se il fascismo è stato il trionfo della gerarchia, la Liberazione fu il riscatto dell’uguaglianza. Se l’occupazione fu sopraffazione, la Resistenza fu solidarietà. E se oggi vediamo tornare fantasmi che pensavamo sepolti, allora ricordare non è più un esercizio retorico, ma una necessità civile.
Chi ha liberato l’Italia non lo ha fatto per ottenere una medaglia, ma perché credeva che anche i poveri, gli ignoranti, gli esclusi potessero meritare un futuro. Oggi, quel futuro è minacciato non dai carri armati, ma dalla rassegnazione, dall’indifferenza, dal cinismo.
Papa Francesco, voce instancabile degli ultimi, ci ha ricordato fino all’ultimo che la libertà è fragile, e che la pace si costruisce con la giustizia. La sua scomparsa — se pure solo ipotetica o metaforica nel nostro discorso — ci spinge a riflettere su quale idea di società vogliamo tramandare. E, soprattutto, da che parte saremmo, se il buio tornasse a farsi largo.
Il 25 aprile non è solo un anniversario. È una domanda: da che parte stai? Chi sei disposto a difendere? Perché la libertà, ancora oggi, è affare dei poveri. Ed è da loro che può ripartire una nuova Resistenza.